di Lorenzo Salimbeni «Cosa fatta capo ha»: avrebbe così commentato Gabriele d’Annunzio al termine della clamorosa giornata del 12 settembre 1919 che lo aveva visto entrare in trionfo a Fiume alla testa dei suoi legionari.
La sera precedente il Vate era febbricitante a Ronchi, località in cui nel 1882 era stato fatto prigioniero dai gendarmi austro-ungarici Guglielmo Oberdan, avviato poi al patibolo per aver progettato un attentato all’Imperatore Francesco Giuseppe. Dove il protomartire dell’irredentismo vide il suo percorso interrompersi prese il via un ammutinamento nelle fila del Regio Esercito ed affluirono volontari per seguire il Vate in una nuova impresa, dopo quelle che gli avevano regalato ulteriore lustro durante la Grande guerra che si era appena conclusa, dalla beffa di Buccari al volo su Vienna.
L’impresa di Fiume rispose alla dichiarazione del Consiglio Nazionale Italiano di Fiume che il 30 ottobre 1918, appellandosi al principio di autodeterminazione dei popoli contenuto nei Quattordici punti del Presidente statunitense Woodrow Wilson per un nuovo ordine mondiale. Già in una delle ultime sedute del parlamento ungherese il deputato fiumano Andrea Ossoinack vi aveva fatto riferimento nell’approssimarsi del collasso dell’Impero asburgico.
La marcia di d’Annunzio e dei suoi legionari non fu arrestata dai reparti inviati per intercettarlo e ci furono invece ulteriori defezioni: lo scontro fratricida si sarebbe consumato nelle giornate del Natale di Sangue che avrebbero posto fine all’impresa fiumana nel dicembre 1920 dopo che Italia e Regno dei Serbi, Croati e Sloveni avevano definito il loro confine con il Trattato di Rapallo dando a Fiume lo status di città libera.
In precedenza d’Annunzio sarebbe stato Comandante di Fiume ed avrebbe rigettato il modus vivendi proposto dal generale Pietro Badoglio per risolvere la questione fiumana, sovvertendo anche il responso delle urne in cui i fiumani stremati dall’accerchiamento si erano dichiarati pronti ad accettare il compromesso.
Il poeta-soldato abruzzese avrebbe cercato contatti con altri rivoluzionari sparsi nel mondo ma soprattutto avrebbe cercato di coordinarsi con i movimenti separatisti all’interno del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni per destabilizzare Belgrado ed indurla a più miti consigli nelle trattative con l’Italia in merito al nuovo confine.
D’Annunzio fu osannato a Zara, ove giurò sulla bandiera intrisa del sangue del combattente Giovanni Randaccio che tutta la Dalmazia sarebbe stata annessa al Regno d’Italia. Nelle more della trattativa diplomatica, il sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris fornì a d’Annunzio il testo costituzionale che con alcuni accorgimenti sarebbe diventato la Carta del Carnaro, Costituzione della Reggenza italiana del Carnaro, proclamata dopo un anno di presenza a Fiume e ricca di contenuti giuridici interessanti soprattutto nell’ambito dei diritti.
L’impresa di Fiume, una parabola di patriottismo, innovazioni sociali e fermenti rivoluzionari capaci di attirare futuristi come Marinetti ed avventurieri, un percorso che inizia con la “sacra entrata” di Cantrida, ove il generale Pittaluga non fece aprire il fuoco sul petto ricco di medaglie di d’Annunzio e si conclude con l’orazione funebre nel cimitero di Cosala in cui il Vate commemorò legionari e soldati regolari caduti nei combattimenti del Natale di Sangue.